Posto di lavoro come dipendente? No, grazie. Riscoprite l’artigianalità e la voglia di essere creativi

Il futuro è l’artigianato, è la tesi di Stefano Micelli, veneziano doc, docente di Economia e Gestione delle Imprese all’Università Ca’ Foscari, e autore del libro, Futuro artigiano (Marsilio), che ha riscosso l’interesse di tutto il mondo produttivo italiano. Nonché successo tra il grande pubblico. Sembra una tesi in controtendenza e che getta le sue radici nel nostalgico passato ma, in effetti, il valorizzare il lavoro degli artigiani e tornare a scommettere su di esso, contaminandolo con i “nuovi saperi” tecnologici e aprendolo alla globalizzazione, rappresenterebbe per l’Italia un formidabile strumento di crescita e innovazione. Dinanzi all’impetuosa crisi economica ed occupazionale, reperire un posto di lavoro fisso è divenuto per un giovane sempre più un miraggio sempre più lontano. L’arte che caratterizza il nostro Bel Paese, il “saper fare” rimane un ingrediente indispensabile per l’intero sistema manifatturiero italiano e l’arma vincente per crearsi un posto di lavoro ed un’occupazione futura. In questo articolo proviamo a riflettere sulla tesi “nostalgica” di Micelli intorno alla quale ruota tutto il libro Futuro artigiano. Provate a riflettere sulle parole del Docente veneziano, la sua tesi è estremamente veritiera e con ottime fondamenta, specie se vengono messe in pratica da un giovane.

Nel mio libro ho provato a ribaltare una prospettiva, una visione ormai radicata. Noi siamo vittime di un concetto, quello di “economia della conoscenza”, che si fonda su un assunto quasi ideologico: cioè che solo la conoscenza formalizzata è rilevante, ed essa non ha a che fare né con la tradizione né con la manualità. Abbiamo abbracciato il presupposto in base al quale l’unica conoscenza economicamente rilevante è quella scientifica, di tipo generale-astratto. Il nostro presupposto, il canone occidentale contemporaneo, è questo. Si pensi solo al testo L’economia delle nazioni di Robert Reich, e alla sua influenza sulla mia generazione”.

Argomentando del “quarto capitalismo” come nuovo miraggio per il sistema economico italiano, Micelli sostiene che “Oggi, in Italia, si parla tanto di multinazionali tascabili. Ebbene, io ho voluto capire cosa ha fatto e cosa fa la ricchezza di queste medie imprese. Ho preso in considerazione, ad esempio, il settore del lusso. Qui è significativo il passaggio dall’idea di moda, di fashion, a quella di patrimonio culturale, l’heritage. Con il termine heritage le case di moda indicano tutto quello che ha a che fare con il contenuto culturale di un prodotto e con il suo retaggio simbolico. Oggi, se lei entra in un negozio di Gucci può vedere un video con degli artigiani al lavoro su una borsa. È una cosa incredibile: quella borsa vale migliaia di euro, e Gucci mostra come la si realizza. Stiamo parlando di uno dei principali marchi del Made in Italy e di un’azienda con un fatturato di tre miliardi di euro! Deve far riflettere che l’imprenditore francese François-Henri Pinault abbia costruito un’intera strategia su questo. Si pensi a Bottega Veneta, quando l’ha comprata Pinault, una decina di anni fa, fatturava una trentina milioni di euro. Adesso fattura oltre mezzo miliardo. Tutto scommettendo sull’artigianalità”.

Micelli, nell’intervista spiega come per stendere il libro Futuro artigiano abbia dovuto analizzare e studiare una serie di casi, cercando di capire “quanta artigianalità c’è ancora nella realizzazione delle macchine utensili, quanto sia alto il grado di personalizzazione ed il livello di “fatto su misura per te”. Continua ad argomentare il Professore “Prendiamo Geox, che è leader nel lifestyle casual. Geox ha decine di artigiani che fanno i modellisti. Una delle forze di Geox è aver internalizzato competenze straordinarie, che una volta erano disseminate nei distretti, e che loro hanno portato in house. Uniscono il meglio delle tecnologie e il meglio dell’artigianato per produrre prototipi che poi vengono industrializzati in giro per il mondo. Oppure prendiamo un caso dalla provincia di Vicenza, Zamperla. Zamperla è un mix di high tech e artigianalità: in una sala c’è solo tecnologia, computer con i software per calcolare le spinte centrifughe e altro; poi entri nell’altra sala e ci si imbatte in un gigantesco laboratorio di artigiani che fanno pezzi unici. Gente che salda, carpentieri, pittori, decoratori…. Come in Geox, questa combinazione di ricerca scientifica ad alto livello e di manualità, ha dato ottimi risultati. Quando la città di New York ha offerto a Zamperla la possibilità di costruire il luna-park di Coney Island, le ha dato appena 100 giorni di tempo per completare tutto, e loro hanno potuto fare una cosa del genere solo perché dominano un saper fare unico”.

Il connubio vincente, per Micelli sarebbe quello di rivalutare l’artigianato per essere più concorrenziali sui mercati globali dato che l’artigianato è “un acceleratore di innovazione di cui non si riesce nemmeno a immaginare la portata. Anziché giocare alla guerra dei mondi, si pensi a cosa si potrebbe fare combinando gli artigiani della meccanica, o della moda, o del vetro, e abbinandoli a un ingegnere, a un esperto di comunicazioni. Io, che insegno a Ca’ Foscari, ci ho provato con i miei studenti. Ho fatto sette gruppi da cinque ragazzi; ciascun gruppo ha lavorato con un’azienda per sperimentare modi nuovi di valorizzare il saper fare artigiano. Aziende apparentemente low tech, che fanno biscotti, biciclette, o divani. Prima di tutto ho dovuto far capire ai ragazzi che non stavano studiando un caso di folklore, ma che dovevano scoprire una miniera di sapere con il compito di realizzare dei piani di crescita rapida. In questa iniziativa ho coinvolto banche, esperti di relazioni pubbliche, l’ICE”.

Secondo il Professore si tratterebbe di fare riscoprire al popolo italiano, soprattutto ai giovani, il lavoro manuale dato che la “concezione manichea, che ha separato il sapere manuale da quello accademico e scientifico, è stato un errore madornale. Se vediamo quali sono i prodotti che vendiamo nel mondo, notiamo che non esportiamo biotech o nanotech, ma la meccanica, la componentistica, gli abiti di alta sartoria, l’agroalimentare, (un po’ meno) il design. Un giorno, forse, venderemo anche le nanotecnologie, ma stiamo parlando di un orizzonte di lungo termine. La crisi ci impone di rimettere in moto la macchina economica in tempi brevi ….. Quello che deve fare la nostra economia è ragionare proprio sulla saldatura tra il secondario e terziario, tra servizi e industria. Avere tante fabbrichette ormai serve a poco: molto più utile combinare le competenze artigianali di cui ancora disponiamo con quelle degli ingegneri, dei ricercatori, dei medici, degli esperti di comunicazione. Un cocktail così può generare l’inverosimile, a condizione che la nostra cultura riconosca il saper fare come un vero sapere”.

Sulla questione “annosa” sulle opportunità di lavoro per i giovani, si discute molto sul fatto che la nuova generazione e i neolaureati non fanno gli artigiani, perché auspicano a sognare di lavorare come dipendenti pubblici o privati.  “È paradossale, ma tutta la discussione sulla meritocrazia negli ultimi anni non ha aiutato la cultura del rischio. È paradossale perché oggi molti dei nostri migliori studenti, proprio in virtù del fatto che hanno ottimi curricula, si aspettano che qualcuno li assuma. Molti di loro si sono semplicemente adeguati a un percorso deciso da altri; lo studente rischia poco di suo. Oggi viviamo in una società che invece esige che l’imprenditore vada controcorrente, facendo cose diverse, scommettendo su quello che altri non fanno. Ecco perché trovo tutto quanto paradossale: da un lato coltiviamo una cultura della meritocrazia, e dall’altro ci aspettiamo che basti un buon curriculum scolastico per farcela. Un film come The Social Network ha forse cambiato un po’ la percezione. Colpisce, nel film, la frase del rettore di Harvard “Qui i laureati pensano che sia meglio inventarsi un lavoro che trovarne uno”.

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